Dall’emergenza alla normalità

In molti si sono già affrettati a prevedere cosa accadrà “dopo” e, salvo gli ottimisti a oltranza, nessuno prefigura un futuro migliore. Qualche previsione sarà errata e qualcun’altra esatta ma, al momento, si può sicuramente puntare su due carte vincenti: si prospetta una grande crisi economica e sociale; molti cambieranno modo di lavorare. La seconda delle due previsioni è giustificata dal fatto che negli ultimi due mesi la maggioranza degli uffici, pubblici e privati, si sono svuotati dagli impiegati che hanno continuato a lavorare da casa. Quelli che seguono sono alcuni spunti per la discussione e la riflessione collettiva.

Come quasi sempre, quando si ha a che fare con le statistiche sociali, i dati che vengono diffusi non concordano: secondo alcuni le persone che da due mesi lavorano a distanza sarebbero 2 milioni[1] mentre invece per altri sono 8 milioni[2] – una differenza non da poco. Resta il fatto che, a partire dalla prima settimana di marzo tutti i datori di lavoro hanno “costretto” il maggior numero possibile dei loro dipendenti a passare dal lavoro “in presenza” al “lavoro agile”. A favorire questo ha provveduto direttamente il governo che, con l’art. 3 del DPCM del 23 febbraio 2020, prevedeva l’applicazione “in via automatica” della modalità di lavoro agile “anche in assenza degli accordi (…) previsti”. In pratica facilitando al massimo le procedure in deroga alle norme esistenti: in questo modo i datori di lavoro hanno evitato problemi più grossi e si sono assicurati la possibilità di continuare le proprie attività, magari in modo ridotto, anche con gli uffici deserti e i lavoratori a casa.

L’emergenza in atto ha costituito quindi un’ottima occasione per una applicazione di massa di una modalità lavorativa che rivoluziona in modo drastico il lavoro per alcune categorie di lavoratori e non è detto che questa situazione eccezionale non diventi in seguito, soprattutto in alcuni casi, la normalità.

Molto spesso però si continua a confondere il “lavoro agile” (detto anche “smart working”) con il cosiddetto “telelavoro domiciliare” che, nonostante sia molto simile, è un istituto regolato da una legge risalente addirittura al 1999 (DPR dell’8/3/1999 n.70) ma che non ha mai riscosso molto successo. Tanto è vero che, nelle statistiche europee, l’Italia era posizionata (almeno fino a ieri) saldamente all’ultimo posto, con una percentuale sul totale dei lavoratori dipendenti che arrivava appena all’1,2% e al 12,9% per i lavoratori autonomi.[3]

Il “lavoro agile” invece è stato introdotto recentemente (Legge 22/5/2017 n.81) e la norma prevede che possa essere attivato solo dopo che sia stato stilato, di concerto con le organizzazioni sindacali, uno specifico accordo locale, per cui fino a prima dello scorso mese di marzo questo genere di lavoro era ancora meno diffuso del già poco conosciuto “telelavoro”.

Le differenze tra il “telelavoro” e il “lavoro agile” sono concrete. Nel primo caso gli strumenti che usa il lavoratore sono di norma a carico del datore di lavoro il quale deve assicurarsi che l’ambiente e la postazione di lavoro siano conformi alle norme sulla sicurezza, deve contribuire alle spese dei consumi elettrici e di connessione e prevede un orario di lavoro come quello di chi lavora in ufficio. Nel secondo caso invece gli strumenti di lavoro possono essere a carico del dipendente, non è obbligatorio avere una postazione di lavoro fissa e quindi nemmeno attenersi ai relativi obblighi di sicurezza previsti, il datore di lavoro non contribuisce alle spese e per l’orario di lavoro è prevista una estrema flessibilità.

Lavorare lontano da un ufficio non è comunque qualcosa di nuovo: già da molto tempo, con il diffondersi delle tecnologie legate all’informatica, alcuni lavoratori hanno iniziato a svolgere la loro attività fuori dalla sede del proprio ente o azienda. Le tipologie di lavoro che è possibile svolgere a distanza nel settore dell’informatica sono molto ampie, in quanto si va da compiti semplicemente esecutivi, come per esempio l’immissione di dati in un archivio, a compiti più elaborati, come l’amministrazione di un sistema complesso. In altri settori i lavori che oggi si possono svolgere non “in presenza” è minore – in alcuni casi del tutto nullo – ma sicuramente il numero di lavori possibili a distanza aumenta ogni giorno e coinvolge potenzialmente un’area sempre più vasta di attività e lavoratori.

La situazione attuale ha in pratica accelerato al massimo un processo che era già in atto e sta fornendo ai datori di lavoro, pubblici e privati, una comoda sperimentazione (per il momento a termine) di nuove modalità di organizzazione del lavoro che, in tempi normali, avrebbero avuto molta più difficoltà a concretizzarsi in così breve tempo, e interessando un’area così ampia. Di questa tendenza già si vedono i primi risultati nei dati recentemente pubblicati dal Ministero della funzione pubblica: secondo questi il numero di lavoratori pubblici che attualmente lavorano da casa vanno dalle 395 unità del Molise alle 7.800 della Sicilia, e gli stessi dati mostrano quanto invece sia praticamente inesistente il “telelavoro”.[4]

Quasi sempre il “lavoro agile” è stato imposto senza sollevare molte discussioni nel settore dei “colletti bianchi” non è invece stato così quando si è trattato di applicarlo nel campo dell’istruzione. Un ambito che sia per il numero di persone coinvolte, sia come lavoratori sia come studenti, è sicuramente tra i più ampi ma è anche quello con degli aspetti specifici che necessitano però una analisi a parte. In questa occasione ricordiamo solo che la “formazione a distanza” esiste da tempo e, negli ultimi decenni, ha avuto un forte impulso e sostanziali cambiamenti con l’introduzione di tecnologie audio-video sempre più sofisticate – questa ha però poco a che vedere con l’attività didattica ordinaria.

Dare un giudizio complessivo sul lavoro a distanza non è semplice e quelli che seguono sono solo alcuni spunti iniziali.

È facile dimostrare che il lavoro a distanza si traduce in un risparmio per i datori di lavoro che avranno bisogno di meno locali, spenderanno meno per la loro pulizia, illuminazione e climatizzazione, non dovranno (in alcuni casi) farsi carico dell’acquisto e della manutenzione degli strumenti di lavoro, non saranno costretti a pagare buoni pasto, contributi per gli asili, per i trasporti e altro ancora. Oltre all’aspetto, molto importante, di avere a disposizione dei lavoratori con degli orari estremamente flessibili, il che avrà sicuramente un impatto positivo per l’organizzazione gerarchica del lavoro e sui profitti.

Dal punto di vista dei lavoratori il discorso è altrettanto complesso perché, mai come in questo caso, le situazioni soggettive hanno un peso predominante rispetto a quelle collettive.

In alcuni casi lavorare a distanza può essere la soluzione di determinati problemi di tipo personale o familiare e, infatti, prima di oggi chi ricorreva a questa modalità lavorativa lo faceva soprattutto per questi motivi. In altri casi le cose possono cambiare se si tratta di un lavoratore o di una lavoratrice che, lavorando da casa, sarà spesso costretta a dividersi tra il lavoro d’ufficio e quello domestico. Sicuramente chi risiede a decine, a volte anche centinaia, di chilometri dal luogo di lavoro sarà felice di liberarsi dai problemi del pendolarismo, mentre chi ha difficoltà nell’uso degli strumenti informatici dovrà sicuramente lavorare affrontando più problemi di prima. Si potrebbe continuare con una serie di casistiche più o meno diffuse e diverse da settore a settore. Va ricordato che, tra i problemi che affrontano – già oggi – questi lavoratori c’è quello del “diritto alla disconnessione”, in altre parole del diritto di non dover essere sempre connesso e quindi sempre disponibile.

Facile prevedere che l’attività sindacale dovrà affrontare in un vicino futuro problemi mai incontrati prima, venendo a ridursi o a mancare del tutto la contemporanea presenza in uno stesso luogo dei lavoratori, aumentando così la diversificazione della loro condizione lavorativa. Una sfida che vale sia per i sindacati di stato sia per quelli di base.

Non è un segreto che, una volta finita l’emergenza, ci sarà sicuramente una spinta forzata e generalizzata, soprattutto per alcune tipologie di lavoro, a trasformare il lavoro “in presenza” in “lavoro agile” per il maggior numero di lavoratori possibile. Questo è sicuramente nelle intenzioni della Pubblica Amministrazione che ha già incontrato i sindacati di stato e annunciato questa “rivoluzione permanente” (sic!).[5] Uno dei nostri prossimi compiti sarà quello di prepararci adeguatamente a questa “rivoluzione”.

Pepsy

RIFERIMENTI

[1] Secondo Nomisma il 9% lavora a distanza per un totale di 2 milioni di persone. Vedi https://bologna.repubblica.it/cronaca/2020/04/09/news/nomisma_due_milioni_al_telelavoro_una_base_per_il_futuro-253568791/

[2] Secondo l’Osservatorio sullo “smart working” del Politecnico di Milano. Vedi

https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2020/04/27/news/milioni_in_smartworking_ancora_per_almeno_6_mesi_ma_dagli_usa_arriva_l_allarme_da_remoto_l_orario_si_allunga_di_3_ore_-255019629/?ref=RHPPTP-BH-I255062246-C12-P8-S3.4-T1

[3] Vedi https://appsso.eurostat.ec.europa.eu/nui/submitViewTableAction.do

[4] Vedi http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/25-03-2020/pa-lo-smart-working-nelle-regioni-ecco-i-primi-dati

[5] Vedi http://www.funzionepubblica.gov.it/articolo/ministro/24-04-2020/pa-dadone-smart-working-solida-realta-anche-futuro

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